Quando penso a Truman Capote, penso sempre a qualcosa di tondo.
È uno strano tipo di associazione, come quando si accostano dei colori ai giorni della settimana – il lunedì è giallo, un giallo opaco simile all’ocra; il martedì è azzurro e il venerdì ancora azzurro ma più scuro, mentre la domenica ha qualcosa di bruno, tra il bordeaux e il marrone, a volte quasi nero. Siamo inzeppati di meccanismi così: uno magari simpatizza per parole come “acqua” e “coccodrillo” e si irrigidisce appena, quasi per un’impercettibile grinza del cervello, al suono di “cocomero” (mentre “anguria”, vai a capire, suona bene).
Dunque, se Truman Capote è tondo, non è soltanto per quella sua “voluminosa testa da feto” (copyright A. Arbasino) o la pinguedine dei suoi ultimi anni o l’arancia cui paragonava un racconto perfetto.
È tondo, Truman Capote, perché ho sempre avuto la sensazione che in lui tutto tornasse: nelle sue pagine, nella musicalità di una prosa inattaccabile, nel suo destino circolare che lo ha fatto nascere nel 1924 e morire nel 1984 in modo che, quest’anno, possiamo celebrare il doppio anniversario dei 100 anni dalla venuta al mondo e dei 60 dalla sua scomparsa.
È tondo per il lavoro di molatura estrema cui sottoponeva ogni sua frase fin dalla primissima stesura. Era già molto preciso e ben definito negli appunti preliminari ai suoi romanzi e racconti, come dimostra l’edizione celebrativa dei taccuini preparatori di A sangue freddo nel volume pubblicato di recente dai Saints Pères in Francia. Grafia minutissima e poche cancellature, zero scarabocchi, ma già periodi ben torniti come:
Holcomb è un villaggio che si staglia nelle alte pianure di frumento del Kansas, dove l’aria ricorda quella della Svizzera e a perdita d’occhio si apre un paesaggio solitario e stupendo – un paesotto come tanti, tagliato in due dai binari della ferrovia di Santa Fé.
Un’ostrica gustosa che racchiude la perla, liscia e perfetta, del leggendario attacco del suo capolavoro:
Il villaggio di Holcomb sta sulle alte pianure di frumento del Kansas occidentale, un’area solitaria che gli altri abitanti del Kansas chiamano “laggiù”
Tutto torna nel girotondo di incontri, tempi, coincidenze e amici giusti, i Martini fatti come si deve e il luccicoso caravanserraglio da Marylin ad Agnelli, da Kennedy a Vidal, da Plimpton al «New Yorker» – ovviamente il «New Yorker»! – e Mia Farrow e Brando e party in bianco e nero, l’Europa da vacanza e soprattutto l’Italia, quella che piace agli americani, tutta arene e Costiera e profumo di limoni, e quel tipo di America, che sembra una sterminata hall di grand hotel tutta barman e balli e limousine in attesa fuori, il tipo di America che Capote fece sua pur venendo da altri mondi, pur arrivando anche lui da “laggiù”, dal Sud profondo, insano e tanto letterario.
E tutto torna in questo mixing glass anni ’60 in cui si annacqua la sua vita, mentre crepitano come cubetti di ghiaccio aneddoti e citazioni da Chat-Biography (George Plimpton, appunto). La circolarità dell’esperienza, un gran bel giro dal Sud al Nord e poi di nuovo al Sud, almeno con la mente, per dare linfa alla sua arte: il Sud della Golightly “di passaggio”, il Sud delle bare intagliate a mano. La descrizione memorabile, che sempre rotola nella memoria di chiunque ami scrivere, della testa di Holly come una statua in legno da dèa Yoruba…
Era anche debole. Così pensiamo. Troppo consapevole dell’insperata fortuna del suo genio per non aver la tentazione di sciupare tutto. La bolla la fece scoppiare lui, con quella penna impertinente. E mentre tutti gli voltavano le spalle, alla fine dei suoi giorni, avrà forse sorriso per quanto gli era stato facile rotolare fin lì come una piccola sgargiante biglia di vetro con cui tutti, per anni, avevano voluto giocare. Se solo fosse stato più “quadrato”; se solo avesse avuto spigoli, per rallentare, anche fermarsi su qualche asperità della vita, invece di lasciarsele tutte alle spalle tanto presto, da enfant-prodige modello che si illude sia finita lì. Ma chi nasce tondo…