In un bel documentario che la riguarda, diretto dal figlio Jacob Bernstein, Nora Ephron racconta a un giornalista la sua fantasia sessuale più frequente e scabrosa: un uomo senza volto incombe su di lei finché, all’improvviso, le strappa tutti i vestiti di dosso.
Non occorre essere cinefili per riconoscere la fonte di una battuta di Meg Ryan in Harry ti presento Sally. Nel flusso narrativo del film, come in ogni buon dialogo che si rispetti, la battuta non funziona in sé, ma in virtù del colpo di coda finale. Billy Crystal, con l’arrogante scetticismo del suo personaggio, le chiede se davvero la sua fantasia sessuale sia questa, sempre la stessa. E lei risponde no, non sempre.
«Cioè?», fa lui.
A volte cambio i vestiti
Questa è la sceneggiatura; questo è il film.
Nella realtà della Ephron – una realtà prestata, votata e vocata alla fiction – il raccontino ammannito al giornalista sarebbe stato simpatico ma niente di più, se si fosse fermato lì.
Anche stavolta, però, abbiamo la chiusa che illumina tutto.
Un tizio che le strappa via i vestiti, ok… Nel documentario vediamo il giornalista che la scruta, sorriso da vecchia volpe televisiva. È evidente che si aspetta qualcos’altro, e il suo atteggiamento non è molto dissimile da quello con cui un editor si predispone alla lettura di un romanzo, ingaggiando con questo una sorta di interrogatorio: ok, mi hai portato fin qui… e quindi? Vediamo dove vai a parare.
Quel e quindi vibra sempre come una domanda sottesa, come un acufene in un orecchio che si predispone all’ascolto e istintivamente si aspetta, per soddisfare il suo senso del ritmo, che a due frasi musicali ne segua una terza.
La Ephron il gioco lo conosce bene. Annuisce. Aspetta. E alla fine aggiunge:
Già, nella mia migliore fantasia sessuale, nessuno mi ama per il mio cervello
Brillante. Ma non è la stessa brillantezza della sceneggiatura. Questa sa di amara verità glitterata. La distanza che assaporiamo tra i due dialoghi e la loro rispettiva destinazione è la stessa che dobbiamo percorrere quando, dopo aver letto un racconto di Dorothy Parker (calco originario delle tante Nora Ephron a seguire), passiamo a leggere l’intervista da lei rilasciata alla «Paris Review», dove regala al lettore un backstage della sua opera, un piano di sé reso attraverso lo stile e i temi che l’hanno resa famosa, ma di un mezzotono più basso, pacato. Prudente, forse.
Lo riconosciamo: è il passo con cui ci si accosta alla verità, quando questa ci riguarda in prima persona.
È quella gran spiritosona della Parker che dichiara all’intervistatrice:
Tutti quegli scrittori che raccontano della loro infanzia! Dio Santo, se io scrivessi della mia, lei non vorrebbe stare nella stessa stanza con me
E di più non dice. L’impressione è che la scrittrice celebre per la battuta fulminante, per la brillantezza dei suoi articoli e racconti, considerasse la vita una faccenda troppo seria per riservare alla scrittura il meglio di sé. O forse, con la penna, è arrivata dove poteva arrivare: più avanti di tanti, indietro rispetto a molti, che pure lei ammirava.
«Penso che nessuno al mondo scribacchi tanto per fare. Gli scrittori di Hollywood, per quanto possano rivelarsi spazzatura, non scribacchiano. Meglio di così non sanno fare. Se quello che vuoi fare è scrivere non devi fingere che tu stia soltanto prendendo un paio di appunti a caso. Avrai scritto la cosa migliore di cui sei capace: a tagliarti le gambe è proprio il fatto che quello sia il massimo che sai fare. Vorrei saper scrivere bene, ma so che non è così, so di non essere stata capace. Per tutta la vita, fino alla fine dei miei giorni, però, avrò grande ammirazione per chi invece ci è riuscito».
Avete mai letto niente di più aggraziato e spietatamente sincero su sé stessi e su ciò che più sta a cuore? Se sì, non era certo uno scrittore.